La parbola del giovane vedovo
Nel Canone buddista troviamo, nel Dighanaka-sutta, la parabola del giovane vedovo.
Questi aveva un figlio di cinque anni che amava più della sua stessa vita. Un giorno dovette lasciarlo a casa e uscire per affari. Arrivarono i banditi che saccheggiarono il villaggio, lo diedero alle fiamme e rapirono il bambino. Ritornato, l’uomo trovò la casa bruciata e, lì accanto, il cadavere carbonizzato di un bambino. Credette che fosse il figlio. Pianse di dolore e cremò ciò che restava del corpo. Amava tanto il figlio che ne raccolse le ceneri in una borsa che portava sempre con sé. Mesi dopo, il figlio riuscì a scappare e ritornò al villaggio. Era notte fonda quando bussò alla porta. Il padre stringeva tra le braccia la borsa con le ceneri e singhiozzava. Non aprì la porta, benché il bambino dicesse di essere suo figlio. Era convinto che il figlio fosse morto e che alla porta battesse un bambino del villaggio che voleva prendersi gioco del suo dolore. Il bambino fu costretto ad andarsene, e padre e figlio si perdettero per sempre.
Se ci attacchiamo a un’idea e la riteniamo la verità assoluta, potremmo trovarci un giorno nella situazione del giovane vedovo. Pensando di possedere già la verità, non potremo aprire la mente per accoglierla, anche se la verità in persona bussasse alla nostra porta. Come diceva anche Lord Thomas Dewar, le menti sono come paracadute: funzionano solo se aperte.
Credere di possedere la verità è, per il Buddha, come autoimporsi una condizione di cecità. Per vederci meglio dovremmo, paradossalmente, ricordarci d’esser ciechi. Stando bene attenti a come palpiamo l’elefante, perché non si sa mai…